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venerdì 5 ottobre 2012

L'armadio dei vestiti dimenticati

Anche L'armadio dei vestiti dimenticati è una storia di donne, come Finché le stelle saranno in cielo, ma a differenza di quest'ultimo è tutto fuorchè un libro semplice. La prosa di Riikka Pulkkinen è tipicamente nordica, non saprei descriverla diversamente: ha un ritmo tutto particolare e riconoscibilissimo per chi ha già letto qualcosa di scrittori scandinavi: a me al momento viene in mente solo Le figlie di Hanna, di Marianne Fredriksson. Le vicende che si intrecciano in questa storia sono almento tre: il presente è occupato dalla storia di Elsa, psicologa di successo gravemente malata che affronta, assistita dalla figlia, le nipoti e il marito, le ultime settimane della sua vita; ed è proprio l'incombere della morte a riportare a galla il ricordo della relazione del marito Martti con la baby sitter della figlia Ella, Eeva. Un ruolo centrale è occupato dalla figura della giovane nipote Anna, che ha un rapporto speciale con il nonno - pittore e intellettuale - e pare ossessionata dalla storia di Eeva, con la quale ha qualcosa in comune, ma non capiamo mai quanto e fino a che punto.

I capitoli raccontano, con ritmi alternati irregolari, la storia presente di Martti, Elsa, Anna e Ella e quella passata di Eeva, narrata in prima persona da Eeva stessa. Si crea quindi una sorta di gioco di specchi e la vicenda di Eeva, che vive gli anni centrali della sua giovinezza intorno al 1968, sembra confondersi con quella di Anna, che lavora a una tesi sul femminismo e ha sofferto di depressione a seguito di una relazione finita male.

é un libro che lascia attoniti, pieni di domande. Un libro in cui è facile trovare qualcosa di sè, un qualcosa di già vissuto, una sensazione di dejà vu: leggendolo ci si sente immersi in un turbinio di sensazioni e emozioni che portano a identificarsi ora con Eeva ora con Anna, più raramente con Elsa e Ella: il tutto avviene spontaneamente, attraverso i dialoghi e le descrizioni che non sono mai noiose o eccessivamente introspettive.

Ci si ritrova trasportati in questo dramma familiare che non ha niente di straordinario, anzi: è un dramma talmente normale che avvertiamo sotto la pelle le difficoltà a comunicare, il dolore, la malinconia di ciascuno dei personaggi.  Verso la fine, abbiamo una grande simpatia per Eeva e Anna, e un po' meno per Elsa; riesce difficile anche provare compassione per lei: seppur malata, ha tenuto per tutta la vita accanto a sè marito e figlia, senza esser loro vicino fisicamente, e anche alla fine li avrà tutti per sè, lasciando al "dopo" il compito di guarire le ferite incurabili.

(Post pubblicato, in origine, qui)

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