Titolo originale de Il bizzarro incidente del tempo rubato è Perfect. In italiano sono state usate quattro parole al posto di una. Il titolo italiano suggerisce qualcosa di completamente diverso da quello che si trova nel romanzo. Non c'è niente di bizzarro in questo libro. La storia raccontata è normalissima: si tratta di una storia di ordinaria follia, di dolore. Di abbandono, di silenzio, di non detti.
Della stessa autrice avevo già letto - e apprezzato a metà - L'imprevedibile viaggio di Harold Fry - e mi sono accostata con curiosità a questa seconda opera, che alcuni mi hanno detto essere "migliore" di Harold Fry.
La narrazione si sviluppa seguendo due piani narrativi diversi: in quello principale, siamo nel 1972 e la voce narrante è quella di Byron, che racconta la storia della sua famiglia, degli avvenimenti che seguiranno a quei due secondi aggiunti, che non ci dovrebbero essere (ecco, allora perché "tempo rubato", nel titolo italiano?): la dimensione del tempo è fondamentale. Nel piano "secondario", invece, assistiamo ad altre vicende attraverso gli occhi di Jim, cinquantenne "disturbato" che per sentirsi tranquillo deve compiere, giornalmente, tutta una serie di rituali, che ruotano intorno ai numeri. E' solo verso la fine che capiamo quale relazione intercorre tra Byron e Jim: prima non vi sono abbastanza elementi e - anzi - si rischia di farsi portare fuori strada. Almeno, questo è capitato a me.
Il romanzo, come dicevo, è estremamente triste: come L'imprevedibile viaggio di Harold Fry, il messaggio finale vorrebbe essere di speranza, ma qui l'ho trovato un po' forzato. Come se non ci fosse modo di uscire da questa rete di tristezza, di dolore, di solitudine.
Con un ritmo serrato, mirando a farci vedere le cose dall'interno, con gli occhi dei personaggi, la Joyce ci presenta una famiglia borghese degli anni Settanta, e una donna, Diana, che si comporta in maniera impeccabile ma nasconde una grande fragilità, che basterà un urto dato a una bicicletta per far tornare a galla. Alcuni elementi potevano, da una parte, essere approfonditi meglio: il passato di Diana, il suo rapporto di amicizia con Beverly, mamma della bambina che ha (o non ha?) investito, l'egoismo di Beverly, le paure di Byron. D'altra parte, però, il ritmo così serrato e lo stile claustrofobico restituiscono perfettamente questo mondo sconvolto, il rumore delle certezze che vacillano, e il silenzio dell'abbandono.
Se avessi scritto questa recensione a metà libro credo che l'avrei stroncato completamente. E' un romanzo che si rivela pagina dopo pagina, il cui vero significato emerge alla fine. Lo stile, diverso da quello di Harold, più fresco, contribuisce tantissimo alla comprensione del messaggio, e mostra - secondo me - il valore dell'autrice.
Però... l'ho trovato davvero troppo triste, troppo. Probabilmente sono stata fuorviata anche dalla traduzione del titolo, ma in questo momento non ci voleva questa lettura così... malinconica, e lo stile, così soffocante, non mi è congeniale.
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